Una storia terribile e meravigliosa: il Cile tra rivolta e resistenza civile

Hystrio anno XXXIII 2/2020

Se nelle piazze da Santiago a Valparaíso il popolo cileno manifesta per rivendicare giustizia sociale, duramente malmenato dalla polizia, il teatro fa da baluardo
di civiltà: cronache da una tournée all’estremo limite del mondo.
di Nicola Pianzola

Edifici dati alle fiamme o circondati dal filo spinato, barricate rudimentali, un enorme striscione che reclama il «derecho de vivir en paz». Un alito di vento, e la polvere dei lacrimogeni, lanciati dai carabineros, si solleva dai marciapiedi divelti dai manifestanti per ricavarne blocchi di cemento, armi rudimentali usate per contrastare gli attacchi dei mezzi blindati. Con un foulard davanti alla bocca percorriamo a zigzag le vie deserte intorno a Plaza Baquedano, oggi ribattezzata dai manifestanti «Plaza de la Dignidad». Siamo a Santiago del Cile, sono passati poco più di due mesi dallo scoppio della rivolta del 18 ottobre, e quasi trenta giorni dall’inizio della nostra tournée nel paese. Tra poche ore saremo in aeroporto, ma non riusciamo a renderci conto che stiamo per tornare a casa, perché qui, in quella che chiamano «la Zona 0», si sta scrivendo una pagina di storia contemporanea e il tempo sembra essersi fermato, o meglio, tornato indietro agli anni della dittatura.
«Sei straniero? Hai visto mio figlio? Non torna da quattro giorni», mi chiede una madre, accompagnata dalla giovane figlia, sorella di uno studente di cui hanno perso le tracce. Forse si tratta di uno dei tanti arresti arbitrari, strategia prediletta dalla polizia militarizzata che sta violando i diritti umani a suon di abusi sessuali e torture. La sua richiesta straziante ci fa sentire impotenti, in alcun modo possiamo aiutarla. Ai piedi della statua equestre dedicata al generale Baquedano, oggi trasformata in una tavolozza di colori che rievocano una bandiera Mapuche, un’altra madre, con un bambino, mi ferma con una richiesta assai diversa. Vuole che le scatti una foto ai piedi di quello che è diventato il monumento della rivolta cilena. In lontananza vediamo la luce rifrangersi e scomporsi in fugaci arcobaleni appena il sole attraversa i potenti getti dei guanacos, mezzi blindati della polizia chiamati come i mammiferi andini perché “sputano”, con potenti idranti, acqua mista ad altre sostanze chimiche, come soda caustica.
Appena si avvicinano, i taxi e le auto vengono esortati a compiere un’inversione di marcia dai semaforos humanos, povere anime che popolano le strade di Santiago e sostituiscono i semafori danneggiati durante gli scontri.
Una città in fiamme
Lo so, non c’è nulla di “teatrale” in questa cronaca di una domenica mattina in Plaza de la Dignidad, anche perché l’unico teatro nelle vicinanze, El Teatro del Puente, è stato trasformato in un punto di primero ausilio, dove i vo lontari sono al lavoro ventiquattr’ore su ventiquattro per prestare soccorso ai feriti. I cartelloni dei teatri sono sospesi, le Facoltà di teatro chiuse, persino il festival più importante del paese, lo storico Santiago a Mil, è a rischio. Il Centro Cultural Gabriela Mistral è tappezzato di immagini iconiche della rivolta e laccetti colorati; non vi si entra per assistere a uno spettacolo, ma per trovare riparo dagli scontri. Con gli edifici teatrali chiusi, il teatro si è trasferito nella piazza, tornando nella polis e riacquistando il suo valore politico. Nelle città universitarie del Cile si sono tenute diverse manifestazioni culturali che hanno fatto da cornice ad azioni performative e flash mob, tra cui Un violador en tu camino, il cui video è diventato virale, emulato in diversi luoghi del pianeta.
Il teatro cileno sopravvive e una nuova vita artistica sembra sorgere dalle ceneri del Te- atro Alameda, avamposto culturale storico di Santiago, incendiato dai carabinieri durante gli scontri. Ed è proprio di fronte all’ex cinema che assistiamo alla commemorazione di un manifestante caduto negli scontri con le forze dell’ordine. Un momento pacifico e di forte commozione che viene bruscamente interrotto dai pacos (nomignolo dei carabinieri cileni), a colpi di gas lacrimogeni e idranti. La nostra ultima “tranquilla” domenica cilena finisce così, nel caos e nell’ennesimo tentativo di soffocare quel vento di cambiamento che ci ha accompagnato durante gli oltre tremila chilometri percorsi nella nostra tournée, soffiando a volte impetuoso altre volte più lieve, fin dal nostro arrivo all’aeroporto di Santiago, dove siamo stati accolti da un cartello che diceva: «Benvenuti in Cile dove ci torturano e ci ammazzano».
Il teatro in prima linea
Giunti a Puerto Montt, non ci accorgiamo che stiamo camminando in una città blindata dove la sera regna ancora il coprifuoco, anche se ufficialmente il toque de queda imposto dal presidente Piñera è stato sospeso. Solo la mattina seguente capiamo che le banche e le farmacie sono circondate da lamiere protettive anti saccheggio e che le scuole sono occupate, come dimostrano le centinaia di sedie incastrate alle cancellate. È da questa cittadina alle porte della Patagonia che ci imbarchiamo per Castro, capitale dell’arcipelago di Chiloè, dove il nostro spettacolo Made in Ilva è stato accolto coraggiosamente, in primis dalla direzione artistica del festival internazionale Fitich, che, in piena controtendenza, ha deciso non solo di non sospendere i suoi eventi, ma di concludere l’intero festival con un lavoro di forte impegno civile e politico, emblematico in un momento storico come quello che sta vivendo il Cile. Immediati i rimandi tra la vicenda Ilva e quella delle industrie locali del salmone, che pochi anni prima fecero scoppiare una rivolta nell’arcipelago, una protesta dei lavoratori che, sommata a tante altre nel paese, ha portato all’odierna condizione di rivolta generale. Tra gli spettatori vi è un’insegnante le cui parole ci illustrano chiaramente la situazione: «Prima ogni comunità protestava per il proprio caso, in maniera isolata, oggi siamo tutti uniti in un’unica rivoluzione». L’incontro con il pubblico di Chiloè, con gli studenti delle scuole occupate, con amici e colleghi che ritroviamo in Cile dopo anni, ci coinvolge a tal punto che decidiamo di estendere il tour in modo da poter contribuire, nel nostro piccolo e attraverso il nostro lavoro teatrale, alla vita culturale di un paese dove, allo stato attuale, ogni forma d’arte e di pensiero è minacciata. Così rispondiamo alla richiesta di aiuto di Claudio Santana Borquez, un nostro collega, professore della Facoltà di teatro dell’Universidad de Playa Ancha, e da Chiloè voliamo a Valparaíso, dove, nel giro di pochissimi giorni, viene organizzata una tappa del nostro progetto di ricerca Megalopolis che coinvolge oltre trenta studenti in una giornata intensiva di workshop pratico. Sembra che gli studenti non aspettassero altro se non un’occasione per potersi riunire liberando l’energia collettiva, fino a ora re- pressa dalla chiusura delle università e dal divieto di ogni forma di aggregazione. «Se penso a un altro luogo di condivisione come questo, penso a una marcia e alla possibilità di venire mutilata» dice una studentessa, riferendosi agli innumerevoli episodi di manifestanti che hanno perso un occhio a causa dei proiettili di gomma (contenenti piombo) sparati dai carabineros, che mirano al volto in piena violazione dei diritti umani. Qui, nella sala del Parque Cultural Violeta Parra, anche se solo per un giorno, è ancora possibile guardarsi, toccarsi, unirsi in un grido di lotta «Marichiweu!» (in mapuche «dieci volte vin- ceremo!»), cantare insieme, sentire di far parte di un unico popolo.
Al termine di questa lunga ed emozionante giornata, attraversando le strade di una Valparaiso devastata, siamo costretti improvvisamente a rifugiarci in un locale do- ve i proprietari abbassano le serrande per protezione dai gas lacrimogeni. Barricati in uno storico ristorante del centro incontriamo i volti della manifestazione: le giovani volontarie della brigada de salud, che indistintamente soccorrono manifestanti e carabineros feriti, e gli artisti ambulanti che faticano a vendere le loro opere. Passiamo insieme una lunga serata, aspettando che là fuori, gli scontri si plachino. E mentre scorrono le ore ci tornano in mente le paro- le di una partecipante al workshop che descrive la situazione cilena come qualcosa di hominoso, horrible y hermoso, «terribile e stupendo» allo stesso tempo, quando alla paura subentra la speranza di cambiare le cose, il sogno di un futuro migliore, proprio come i due bambini che, entrando insieme a noi nell’ascensore dell’hotel e osservando il paesaggio mentre saliamo all’ultimo piano, presi dallo stupore si dicono: «Guarda, da qui si vede il paradiso».