Recensione di Tommaso Chimenti per Recensito

15 marzo 2017

INSTABILI VAGANTI: ALLA RICERCA DEI “DESAPARECIDOS” E DELLA VERITÀ

BOLOGNA – “Le dittature sono l’ordine delle galere e il silenzio dei cimiteri” (Sandro Pertini).
La disperazione del silenzio del 4.33 di John Cage e lo strazio dell’angoscia delle 4.48 di Sarah Kane. I numeri, a volte, hanno un potere taumaturgico, anestetizzante, nella loro freddezza neutra. I numeri sono solo simboli, piace ripetere ad alcuni, ma non solo, i numeri sono più che altro segni, sulla pelle, nella memoria, nel ricordo, ritornano nel sogno a farci compagnia. Quando i numeri si fondono inscindibilmente con la cronaca allora la materia torna viva e pulsante ogni volta che quei segni matematici si riaffacciano, riaffiorando, emergendo galleggianti, alla nostra bocca, aprono uno squarcio nel nostro presente chiamando a raccolta l’ieri. E così è stato per i 43 ragazzi desapa1messicani rapiti e fatti sparire forzatamente (in una sola terribile parola spagnola: desaparecidos, che non significa soltanto scomparsi, il che implica anche la possibilità e l’eventualità della scelta autonoma di colui che non risponde più all’appello di essersi allontanato di proposito, ma proprio, in senso passivo, fatti sparire contro la loro volontà) dalla polizia a Iguala nel 2014.
Erano studenti e stavano andando a un corteo di protesta contro il governo. In America Latina il fenomeno dei desaparecidos (il peggior modo, non rimane un cadavere da piangere e resta sempre in fondo ai parenti un lumicino di speranza che la persona cara sia ancora viva, quindi non si chiude mai un capitolo e non si riesce ad elaborare il lutto) è molto ampio e sentito: 30.000 negli ultimi dieci anni in Messico (migliaia le ragazze al confine con gli Stati Uniti), altri 30.000 sotto Videla in Argentina, 40.000 con Pinochet in Cile. Recentemente abbiamo assistito impotenti a quella di Giulio Regeni in Egitto, ma almeno lì, magra consolazione, il corpo è stato ritrovato. Ed è grazie alla compagnia delle montagne bolognesi (“vicini di casa” delle Ariette), gli Instabili Vaganti (Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno), che è stata portata in scena la tragica notizia dopo aver lavorato, nello stesso periodo, nel Paese di Frida Kahlo. Gli Instabili (instabilivaganti.com) infatti hanno una lunga militanza spettacolare internazionale, nonostante la giovane età anagrafica, che ha toccato negli ultimi anni appunto il Messico fino al Cile, Argentina e Uruguay, ma anche Iran e Cina, Tunisia e Corea, Edimburgo e India, Stoccolma e Romania. Più estero che Italia; c’è da chiedersi il perché.
desapa2La loro forma di teatro è didattico-divulgativo, votato al sociale e al civile, impegnato nel portare conoscenza e informazione al pubblico. Si percepisce e respira che il loro habitat sia la strada, il teatro di piazza. Così fu con “Made in Ilva”, sul dramma dell’acciaieria di Taranto, fino a questo “Desaparecidos#43”, sui ragazzi messicani spariti nel nulla. Con semplicità, a tratti fresca ingenuità, hanno il coraggio e la forza della protesta, dell’arringa, di mettersi in piedi ed urlare il loro feroce sdegno, sudore e grida, in un contrattacco dialettico che va ben oltre l’invettiva fine a se stessa: “Essere vivi è il nostro atto sovversivo e rivoluzionario”. L’impostazione è lineare, e in qualche modo “prevedibile”, in un susseguirsi di stazioni di questa Via Crucis verso gli inferi di molte pseudodemocrazie dove il dissenso fa rima con terrorismo e con nemico del popolo. I fiori secchi, origami purissimi ma fragili, pietre preziose di celluloide come i giovani spezzati nei loro anni migliori, i lumini accesi a rischiarare le tenebre di cimiteri e fosse comuni, mentre le fotografie in bianco e nero, in stile foto segnaletiche, vengono mostrate e i nomi dei dispersi ed evaporati, scanditi o sussurrati, entrano sottopelle. Un teatro della Resistenza: “Non appena qualcuno si rende conto che obbedire a leggi ingiuste è contrario alla dignità dell’uomo, nessuna tirannia può dominarlo” (Mahatma Gandhi).Desapa3
Come dice il loro danzatore messicano Omar Francisco Armella Romero: “Non stiamo parlando solo del 2014, stiamo raccontando che cosa avviene oggi, ora in questo preciso momento in Messico”. Ed è un macigno ascoltare queste tremende parole. Silenzio. Inquietudine. Un teatro investigativo, un teatro giornalistico. Come a creare la corona di spine di Cristo, a raggiera vengono posizionati jeans e magliette che erano bianche e che ora sono insanguinate di torture (“Garage Olimpo”; ci è tornata alla memoria la performance vista un paio di stagioni fa al festival Volterra Teatro e il rosso dei fili dell’artista sarda Maria Lai), ma senza corpi dentro a riempirle, a formare una stella, anche questa divisa, rotta, tranciata, segata a metà. Un teatro-denuncia, un teatro altamente politico e pasionario: “Eran giovani e forti, e sono morti”. Lanciano la giusta provocazione: “E se tu fossi il 44esimo?” e allora ti accorgi come la Storia sia vicina, come può toccare in un attimo anche a te, come le vicende distanti migliaia di chilometri o lontane nel tempo si possano azzerare e avvicinare. Un teatro empatico. “L’arma migliore di una dittatura è la segretezza, l’arma migliore di una democrazia è la trasparenza” (Edward Teller).
Un ammasso di corpi (ci ha rievocato le matasse di carcasse umane aggrovigliate e accatastate dai Khmer rossi vietnamiti), piramidi di zombie sotto veli di bambagia lanuginosa come bozzolo di crisalide si aggiungono e si assommano ai movimenti dei danzatori come in una rievocazione della Santa Muerte un mix elettrico dal quale spuntano una sposa bianca e una sposa nera. Gli Instabili Vaganti sono sulla strada giusta per raccontare il Male eterno dell’uomo contro i propri simili, come i Teatr Zar (abbiamo visto il loro “Armine sisters”) o i Belarus Free Theatre. Si vede, si sente, hanno passione e schiena dritta per rendere e donare alla società i loro viaggi teatrali alla ricerca di una sostanza altra e più alta, contribuendo a rendere il mondo, attraverso la consapevolezza dei fatti, un posto migliore. Oppure, solamente meno ingiusto. “È nel sonno della pubblica coscienza che maturano le dittature” (Alexis de Tocqueville).