Recensione di Davide Buonasorte per teatroteatro.it

24 ottobre 2007

Il Lettino di Lenz è una graticola di impulsi cerebrali, fucina di sofferenze e spugna di emozioni. Nel buio di uno spazio metaforicamente destinato al ricovero della malattia, la Scimmia di Goethe ha posto il suo domicilio, fuggendo dalla contiguità della vita normale, lontano dagli amplessi fisici e mentali, ciclici, che costituiscono il routinario svolgimento delle azioni quotidiane.
Una farfalla di scaglie metalliche assiste sul fondo, a ben guardare è il mantello alato di un angelo che non ha potuto spiccare il volo a causa della propria pesantezza, a scrutare nel profondo è il simbolo della pesantezza che attanaglia il resto del mondo, dedicando a Lenz tutte le proprie attenzioni di lievità, che solo a lui consentiranno di spiccare il volo.
Nicola Pianzola è espressione di talento vivo e gene mutante, sapientemente modellato dal demiurgo regista (Anna Dora Dorno, che lo affianca in scena con splendido timbro), che maieuticamente estrae da lui la forma tangibile della follia in tutta la sua purezza. “Stanchezza non ne sentiva, solo gli rincresceva, a volte, di non poter camminare sulla propria testa”.
Lo spettacolo è un affresco dedicato alla malattia psichica vista come espressione poetica e prescientifica di manifestazione dell’Io, drammatizzato sulle opere di Reinhold Lenz dallo stesso Pianzola, animato da un amore sconsiderato per la vita in ogni sua espressione apparente, lontano dal determinismo degli eventi che ciclicamente intercorrono nell’esistenza generando la noia. I due protagonisti duettano brillanti in uno spazio scenico contraddistinto dal corretto utilizzo di ogni possibilità concessa: gli oggetti presenti vengono collocati nello spaziotempo opportuno, la voce si alterna al canto sulle note di una musica pregevolmente firmata da Andrea Vanzo, mentre ambre discrete ritagliano una dimensione eterea che più che alla follia si rifà al sogno. Notevole lo spunto comico, debitamente reso da un folle che si avviluppa nelle sue discrasie mentre una bandiera si issa sulla presunzione di vita da ricercare in ogni cosa che lo circonda.
Talmente ricco di spunti da meritare un silenzio riflessivo che segua gli applausi, a vantaggio di “un’umanità mediocre che non conosce i grandi vizi e le grandi virtù, se non per sentito dire”.
Sebbene il folle, e l’artista, fatichino a comprenderlo.