LA CELEBRAZIONE DEGLI INSTABILI VAGANTI: IL CANTO LIBERO DELL'ESISTENZA
BOLOGNA – Ha un che di aulico, mistico e magico l’apparato messo in atto, con una profusione di energie e impegno, oltre che di arti e mestieri, dagli Instabili Vaganti, formazione (potremmo dire duo, Nicola Pianzola da Novara e Anna Dora Dorno da Taranto incontratisi e stabilitisi a Bologna) attivissimi in questi anni, seppur nella giovane età dei due performer, più all’estero che in Italia. Hanno base nella collina vicino alle Ariette, altro duo creativo, sentimentale, affiatato: e forse non è un caso, la campagna da una parte con i suoi silenzi e i viaggi e il cosmopolita che tutto ruota e vortica attorno. E’ proprio il loro essere girovaghi e giramondo che ha fatto sì che in questi dieci anni abbiano intessuto rapporti e relazioni, attraverso spettacoli ma soprattutto workshop in ogni parte del globo, in svariate zone del mondo: dalla Corea all’India, dal Messico alla Cina, Uruguay e Cile. Proprio in questi giorni è uscito, edito dalla Cue Press, il loro volume “Stracci della memoria” che racchiude il loro polifonico e prolifico percorso fino a questo momento ricco e intenso.
Ed è nella “Celebrazione” che l’anima e lo spirito più profondi degli Instabili viene fuori con tutto il suo bagaglio di respiro e attesa, di quella preghiera laica dell’uomo per l’uomo, quell’andare in profondità fino alla conoscenza ultima del sé, della consapevolezza, del vivere, del sentire l’altro come parte essenziale e integrante di condivisione, di riflesso, di specchio, di unione. Si percepisce, si scandaglia, si morde il tutt’uno che hanno creato in una settimana di lavoro all’interno dell’affascinante Chiesa San Filippo Neri con i performer giunti da tutto il mondo, unione artistica e d’intenti. “La Celebrazione” (ideazione e regia di Anna Dora Dorno) è un canto, un inno alla gioia e alla vita, allo stare, al dialogo come all’introspezione perché non può esistere l’una in assenza dell’altra. L’attesa è quella dei riti pagani che si muove attorno, con forza concentriche a creare vento e armonia, con il movimento fresco di vestali, in bianco, in nero, in rosso, a creare un vortice che sa di mare, di nuove energie immesse in questo spazio dalle volute altissime, dai soffitti scrostati, dagli affreschi, dall’incastro incastonato tra il recupero dell’antico e la valorizzazione dell’intervento conservativo contemporaneo.
Su un piccolo palchetto rialzato al centro cinque interpreti, cinque lingue, Messico, Italia, India, Corea, Romania, comunicano attraverso l’universalità gutturale di suoni ancestrali che riecheggiano e trovano sponde tra queste mura che sanno di storia, che profumano di vita passata. I drappi rossi avvolgono come fiamme, come abbraccio di mamma, come fasce di sangue dopo una nascita travagliata. Ed è nell’immenso bianco attorno che la centralità di questa piccola piramide umana si esalta ed esplode in un mantra che sale e spiazza, scroscia e s’impenna fino alle vette per poi ridiscendere e infilzare, impilare, impalare gli uditori in un rimando continuo che colpisce occhi, cuore, orecchie. E’ avvolgente, indubbiamente, quest’ora contemplativa che ci accompagna verso le viscere della terra, dentro le pieghe del tempo. Scricchiola il pavimento come un lago fatato ghiacciato che sta per spaccarsi fino a condurci in un’altra dimensione, parallela, sotterranea, sottocutanea. La parte sonora coccola, liscia come una lingua mentre monta la moltitudine in un canto ritmato di piedi a battere e sobbalzare la terra a creare un’immagine di rilievo, solida e compatta, come il “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, un muro spesso pronto alla corsa d’impatto, a non squagliarsi sotto il sole, un’onda vibrante dove si muovono all’unisono tutti e trenta i performer in un ammasso che dondola, scintilla, scivola, trema.
Siamo davanti ad un matrimonio ma anche ad un canto sofferente, uno sposalizio festoso e il suo contrario funebre, il ritmo della vita e il sacrificio sull’altare, il dolore come lo sprizzo solare: è la vita in tutti i suoi colori. I teli rossi si agitano come arpioni conficcati sul dorso della balena. Sembrano uscire stralci di Mito, Ulisse tra i flutti, Ercole e le sue fatiche, Atlante con il mondo sulle spalle. Urlano “Pain” ansimando in un afflato carico di meraviglia e il coro gira come dervisci, come zombie attorno al ponte levatoio. Sale la tensione, la scena si scompone e ricompone, ad elastico, trova un suo equilibrio prima di decostruirsi nuovamente in questa fragilità dolce, in questa precarietà strutturata, in questa cantilena-altalena di emozioni, di carezze, di passaggi, di sfioramenti sensuali. Nel loro cammino, spirituale e ateo, tra sacro e profano, c’è spazio per il ricordo, “Remember” ripetuto all’infinito, fino all’assuefazione.
L’eco crea pathos e adrenalina, enfasi e partecipazione; ecco la svedese che sciorina il suo appuntito discorso, la brasiliana che dal pulpito morbidamente incuriosisce, ecco Nicola Pianzola (in questo frangente molto vicino alla recitazione di Pippo Delbono) che traduce “This is the end” dei Doors prima che parta, ecumenica e trasognante, isterica e allucinogena, la voce di Jim Morrison graffiata e graffiante, mai morta, prima del ballo collettivo, orgiastico carnascialesco di braccia levate al cielo ad invocare quel dio, terreno e tattile, concreto e umano, del giusto, della verità, dell’ascolto, della vicinanza: un inno alla vita in tutti i suoi aspetti.
Visto all’Oratorio San Filippo Neri, Bologna, il 5 giugno 2018