Recensione dello spettacolo Il Rito di Instabili Vaganti – Simona Maria Frigerio per Persinsala

31 maggio 2018

L'impervia strada dell'Everyman

A PerformAzioni 2018 va in scena Il Rito. Il frutto di dodici anni di ricerca di Instabili Vaganti tra impossibili definizioni e performance art.

C’era una volta il teatro. Punto.
Poi, è arrivato il tempo delle definizioni. Contemporaneo, borghese, di ricerca, commerciale, e l’ultima – quella attualmente à la page – di teatro popolare d’arte. La più contradditoria e meno convincente, in quanto le arti, se innovative, originali, come finestre aperte su nuovi orizzonti, hanno sempre precorso i propri tempi e, quindi, sono diventate popolari (più o meno, ma mai nazionalpopolari) almeno mezzo secolo dopo la morte dei propri autori. Da Fantozzi che dileggiava la Corazzata Potëmkin, al cognato di Max che, in Rebecca. La prima moglie di Hitchcock, irrideva Picasso, i termini arte e popolare non hanno mai coinciso con un comune sentire. E allora proporremo una semplificazione che ci è nata, proprio assistendo a Il Rito. Esiste il teatro. Esiste il non-teatro. Se si assiste a una rappresentazione e ci si risveglia, il mattino dopo, con una nuova idea, se ci si accorge, magari con fastidio, che ci è sorto un dubbio, se si continua a provare un’emozione inaspettata o perturbante, il teatro si è attuato. Altrimenti, se si è rimasti saldi nelle proprie incrollabili certezze, se l’ala della poesia non ha nemmeno sfiorato la nostra spalla, si è semplicemente trattato di non-teatro. Ieri sera, a Bologna, è bastato vedere lo sguardo brillante, l’entusiasmo contagioso dei giovani performer, che stanno partecipando alla sessione internazionale sotto la guida di Instabili Vaganti, per capire che il teatro si era attuato.

A questo punto dovrebbe partire un’analisi degli elementi della performance per spiegare perché ciò sia avvenuto, cosa abbia funzionato e fino a che punto. Si potrebbero rintracciare, passando dalla teoria contenuta nel libro Stracci della Memoria alla pratica de Il Rito, una serie di elementi significanti in se stessi, quali la perfetta riuscita dei movimenti spiraliformi o sintetici di Nicola Pianzola che si fanno pura danza: dalla solare capoeira alle danze tribali, il gesto si sposa al suono con magica consonanza; delle azioni che abitano appieno una spazialità site-specific; del dialogo tra la voce di Anna Dora Dorno e le musiche e i suoni di Riccardo Nanni (in grado di ricreare le atmosfere di un’opera rock con brevi recitativi a ricucire azioni e canti); dell’uso simbolico di colori e oggetti che si sposano a immagini e costumi per costruire un esempio mirabile di performance art – laddove etica ed estetica si coniugano in un linguaggio espressivo originale, in una multidisciplinarietà scevra da logiche sommatorie (a fini Fus). Ma non ve lo diremo perché, avendo seguito il processo creativo, ci taccereste di parzialità.

E allora faremo qualcos’altro, dato che con i nostri lettori giochiamo sempre a carte scoperte. Vi racconteremo un’esperienza – del tutto personale, parziale, soggettiva.

Dal buio di una chiesa sconsacrata, come in un morality play, emerge l’Everyman, l’uomo comune che, col suo saio medievale, rimanda inevitabilmente alle atmosfere de Il nome della rosa. Ma questo Guglielmo da Baskerville che, con la sua lanterna/conoscenza vuole illuminare il percorso umano, di fronte alla morte ha molti dubbi su cosa portare con sé: non si è ancora arreso alla sua ineluttabile fine. Lunga e impervia è la strada che dall’Inferno si snoda verso la luce, dalla terra desolata dove there “is no water but only rock / Rock and no water and the sandy road”, alla sfida romanticamente titanica dell’angelo ribelle: “Better to reign in Hell, than serve in Heaven”. La ribellione di Prometeo è principio maschile, forgiato nel fuoco, impastato di carne e sangue.

Ma è il principio femminile a venire avanti, verginale nel suo abito da sposa, ma già cosciente – dell’eterno ritorno, dell’atto procreativo/creativo escluso al maschio, del grembo seducente e rappacificante di madre terra. E nemmeno la guerra, nemmeno la forza o la protervia, né la bellezza e l’amore potranno esorcizzare la più grande paura dell’uomo – quella del vuoto, del non-io, dell’assenza.

Eppure, alla fine, Everyman si riconcilierà con l’inevitabile, con le sue misere spoglie di vecchio che cantilena il suo addio, con la voce del tempo perso per sempre; e noi con lui. Monna morte avanza ed è bello lasciarsi andare, arrendersi alle sue braccia, e farsi cullare: “Lay your sleeping head, my love, / Human on my faithless arm; / Time and fevers burn away / Individual beauty from / Thoughtful children, and the grave / Proves the child ephemeral”.