Recensione di Renata Savo per Scene Contemporanee

23 novembre 2018

Teatro dell'esperienza

[…] Ne Il Canto dell’Assenza gli Instabili Vaganti traducono l’immaginario del lutto in immagini video e performative, evocando la presenza di un’assenza e le sensazioni procurate a chi resta, secondo una visione europeista. Siamo infatti abituati a percepire la morte di qualcuno che ci era caro come una dolorosa perdita: “il dolore è un meccanismo somatico di protezione. Esso motiva […] a proteggere le zone dolenti, a evitare gli stimoli nocivi, a cercare aiuto” (Milton Erickson, Opere Volume 1, 1982); e mentre “provare dolore può essere considerato un evento del tutto normale e naturale, è una parte dell’esperienza della vita, […] La sofferenza è anche una sensazione interiore legata al nostro mondo emotivo e spirituale e la creiamo noi stessi, è la reazione al dolore provato. […] La sofferenza è l’intima risonanza del dolore, la sua misura soggettiva” (Giovanna Meloni, Il dolore della perdita).
Il dolore è quindi necessario, la sofferenza no, ma si può superare e ridurre grazie all’esperienza della condivisione. In qualche modo è di questa esperienza liberatrice che Il Canto dell’Assenza fa dono allo spettatore, a teatro, luogo deputato alla riflessione e all’ascolto delle emozioni umane, qui inevitabili e universali. Anna Dora Dorno è una donna in abito nero, il colore del lutto; ha un velo di tulle trasparente sul capo, si muove ieraticamente sul palco verso un microfono, mentre il video la mostra anima vagante su una spiaggia, alternando il suo primo piano ai dettagli delle morbide curve del velo ricamato e ondeggiante sull’acqua, elemento con cui si indica la vita, la rinascita, il mutamento irreversibile di una condizione. La sabbia, intesa come polvere, cenere, che ritorna alla cenere, non a caso è altro elemento ricorrente nello spazio simbolico della performance, su cui piombano dei tagli di luce espressionista che separano il tempo della memoria da quello agito. La musica onnipresente conferisce allo spazio fisico e sonoro un’aura solenne, producendo nel dialogo con il visibile una sospensione lirica che Nicola Pianzola restituisce sotto forma di movimenti fluidi, ora lenti, ora rapidi, con azioni fisiche che sono anche ritmiche. C’è la parola in questo studio sul Canto dell’Assenza, una parola mimetica e forse non necessaria; piuttosto che essere incarnata e pronunciata dal vivo, forse andrebbe scorporata, restare su un piano evocativo e poetico – come suggerisce la parola “canto” – o essere addirittura assente, ossequiosa del formalismo delle azioni. C’è anche uno sguardo che grida sincerità negli occhi di Anna Dora. Un ricordo sembra essersi impossessato di lei al punto da sciogliere la sua voce in un lamento, come se l’emozione provata fosse troppo forte da trattenere e avesse bisogno di fuoriuscire, di essere letteralmente “premuta fuori” (lat. exprimĕre). Nella sabbia, che è come la terra, vi fissa dentro un fiore, mentre Pianzola, figura che potrebbe coincidere con un amante o un amico scomparso, si prepara a disperdere quei granelli nell’aria, creando un vortice che fertilizza il terreno su cui saranno impresse le tracce vuote di un passaggio. Perché l’assenza non può essere disgiunta dal concetto di presenza; il concetto di assenza è dipendente dalla presenza che l’avverte. Nicola procede nell’esecuzione di questa azione a tempo di un loop sonoro. «Il suono dell’assenza non è il silenzio – dice Anna Dora – ma la saturazione del ricordo», confermando con le parole quello che i corpi hanno già verbalizzato potentemente, e cioè che l’assenza esprime il suo non esserci più attraverso il confronto con un un passato, con un esserci ancora (Nicola Pianzola), con un qui e ora immaginario, forte e catartico nella sua com-presenza accanto a chi r-esiste.