Recensione di Manuela Rubbini (Storica dell’arte)

27 marzo 2010

“Condensare il dramma dell’esistenza dell’uomo in gesti, suoni e movimenti essenziali; una danza tribale che vuole preservare il ricordo del passato e ricordare che sarà sempre così anche per i secoli a venire.
I lutti ci saranno sempre, i drammi anche, fino a lasciare quel gesto d’amore senza frutto che é forse solo un ricordo lontano di un tempo interrotto con uno strappo. Poi la vita scorre e va avanti, compone cerchi e li distrugge, e i gesti di tutti i giorni si ripetono nella ciotola che si riempie e si svuota d’acqua.
All’inizio, le scene sembrano quasi appunti di un dramma, anche la melodia è piena, corposa; poi, un po’ alla volta tutto si asciuga e rimangono i gesti essenziali, la parola non conta più, una nenia basta a far ricordare ciò che non è e la melodia si trasforma nei rumori della natura, del bosco, dei terreni aspri come di quei crepacci del bastione pliocenico che sono stati teatro di quelle vicende che si sono volute rievocare, non ricordare; fino all’abbraccio finale con la natura in cui la carne torna terra, un trapasso vissuto senza rimpianti, ma anzi con vitalità, con l’energia positiva che dà il battere forte del tallone del piede nell’incalzare del passo, come dire che tutto proseguirà anche dopo, come lo è stato prima che quel dramma iniziasse.
Si esce con la voglia di tornarlo a vedere, si esce col rimpianto di non aver cantato con voi la nenia finale, si esce stupiti e stupefatti, perché era impensabile pensare che avremmo vissuto tutto questo in un ora. Ho sentito parole come “ermetica” e ho pensato ad “Ossa di seppia”, a me sono uscite parole come “elegante e raffinata rappresentazione della vita racchiusa in un sol gesto” e mi è venuto in mente il taglio della tela di Lucio Fontana o ancor di più le sue ceramiche smaltate bianche e bucherellate.