Recensione di Enrico Piergiacomi per Gagarin Orbite Culturali

28 Marzo 2020

UN SOGNO GLOBALE. L’EUTOPIA DI THE GLOBAL CITY SECONDO INSTABILI VAGANTI

Lo spettacolo The Global City della compagnia Instabili Vaganti – fondata da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola – costituisce un’ulteriore tappa di un percorso di ricerca che, dal 2004, oscilla tra due poli apparentemente in contrasto: la memoria e il viaggio. L’una sarebbe una facoltà umana che tende a conservare e raccogliere le informazioni o le esperienze disperse, l’altro un’esperienza dinamica e di continua apertura verso il cambiamento, la de-centratura delle proprie sicurezze, l’ignoto. Gli Instabili Vaganti trovano, in realtà, un loro modo originale di coniugare questi due opposti. Essi pensano al viaggio verso paesi stranieri e lontani non come un’attività dispersiva, bensì come un modo per attraversare, con tappe graduali, un percorso di conoscenza che va dalla memoria individuale del performer alla memoria storica, che a sua volta guida alla memoria antropologica, ossia comune a tutti gli esseri umani. Viceversa, la memoria è concepita come una facoltà per nulla statica, perché al suo interno si trovano risorse cognitive e ricordi collettivi (i cosiddetti “archetipi”) in continua trasformazione o mutamento, che il rito del teatro può portare alla coscienza di spettatori e performer. Gli Instabili Vaganti compiono così due attività correlate. Dinamizzano la memoria e, al tempo stesso, orientano l’esperienza del viaggio verso un obiettivo unico/condiviso di conoscenza.

Chi fosse interessato ad approfondire le strategie e i presupposti di questo programma di ricerca poetico potrà consultare il volume Stracci della memoria edito da Cue Press, in cui Dorno e Pianzola sintetizzano il loro percorso di ricerca svolto fino ad aprile 2018. Nel mio breve intervento, intendo invece proporre che The Global City inizia dove il volume in questione si conclude, vale a dire con la promessa di un ulteriore approfondimento. Stracci della memoria termina, infatti (p. 149), con il proposito di perseguire un’utopia: la «creazione di uno spazio d’incontro in cui poter scoprire un linguaggio universale, capace di integrare il passato al presente e di proiettarlo nel futuro, attraverso un’azione performativa condivisa». Poco più oltre, è precisato che questo non è un luogo fisico. È piuttosto uno spazio di relazione virtuale tra persone anche molti distanti nello spazio e nel tempo, che condividono lo sforzo di tradurre in una lingua che ancora non esiste la già citata memoria antropologica che conserva, nell’intimo di ciascuno di noi, quegli archetipi che rivelano la nostra autentica essenza, a prescindere dalle differenze storiche e individuali. E dal momento che questo ideale-guida aspira a qualcosa che è forse realizzabile, nonché che porterà ad effetti positivi, come l’eliminazione dei conflitti basati su personalismi e ideologie popolari, tale utopia è chiamata a ragione “eutopia”: «È possibile portare la nostra utopia verso un’Eutopia? Verso cioè la creazione di un luogo buono, in cui poter immaginare ancora un futuro? In cui poter dare ancora valore al passato? È possibile riscoprire il nostro tempo interiore».

Ora, The Global City va appunto in questa direzione, o meglio pone le fondamenta per realizzare questa eutopia utile, universale e ambiziosa. Lo spettacolo costruisce, più nello specifico, un sogno che cerca di dare forma a questo luogo non-fisico: una “città globale”, composta dai ricordi più vivi dei paesi e delle culture disperse nel globo terrestre. Sul modello de Le città invisibili di Italo Calvino, dunque, gli Instabili Vaganti immaginano una “città delle città”. Parliamo di un luogo non-fisico che rappresenta la condivisione, la bellezza e la felicità perfette.

Sul piano scenico, accade allora che lo spettatore venga avvolto in un sogno. Il lavoro si apre con Pianzola che, fingendo di essere un venditore di ricordi, guida gli spettatori dentro un continuo susseguirsi di frammenti drammatici, che raccontano qualcosa sulle metropoli umane e sui desideri che formicolano al loro interno, sugli scambi e sugli affari che vengono svolti, sul modo in cui i vivi si relazionano tra loro e sui loro riti di ultimo saluto ai morti, ma anche su molto altro. Come il Marco Polo de Le città invisibili, dunque, l’artista si rivolge al suo pubblico (analogo del Kublai Kan calviniano) per far loro immaginare i luoghi realmente esistenti che non hanno mai visto, o magari solo sognato, e che se fusi insieme possono dare vita alla città globale. Pianzola racconta, ad esempio, il suo incontro con gli anziani del villaggio nelle risaie vicine a Seul, che vivono in accordo con la natura e senza paure vane verso gli stranieri. O ancora, egli fa immaginare la metropoli di New York, dove al contrario i suoi abitanti incontrano persone differenti, sono sollecitati da diversi stimoli e spinti sempre a nuovi affari, nuovi amori. Ad aiutare Pianzola nello sforzo di evocazione della città globale intervengono, inoltre, sia il coro di alcuni giovani interpreti che incarnano il popolo o la massa delle persone che abitano le metropoli, sia Dorno che, dalla sua regia, crea con effetti sonori e visivi un’atmosfera onirica, che aiuta a lasciarsi coinvolgere dagli eventi drammatici della scena.

Gli Instabili Vaganti sono tuttavia consapevoli che qui si può celare un potenziale pericolo. Si può intendere la “città globale” in due modi. Per un verso, l’espressione può riferirsi a un “città globalizzata”: un luogo in cui si raggiunge una lingua e un immaginario comune, perché viene tutto appianato e neutralizzato. Questo processo di globalizzazione porterebbe così a un impoverimento. Le differenze verrebbero cancellate per arrivare a uno scenario pacifico, ma amorfo, in cui non esistono più né Seul né New York, né Shangai né Roma, e così via. In tal caso, il sogno sarebbe più un veicolo verso il sonno del linguaggio e dell’immaginazione, perché gli abitanti di questa città non avrebbero più nulla da pensare e immaginare.

Per un altro verso, si può invece interpretare “città globale” come un sogno cosmopolitico: un mondo in cui le varie differenze, lungi dall’essere negate e appianate, sono invece conservate e incanalate verso una mediazione dialettica. Ciascun abitante di questa città virtuale conserva la sua cultura, i suoi talenti, le sue specificità, la sua storia, ma fa uno sforzo di isolare da queste differenziazioni solo gli elementi migliori dei vari posti e che favoriscono la fondazione della città perfetta. Per riprendere gli esempi già fatti, non bisogna costringere gli anziani di Seul a spostarsi nella frenetica metropoli di New York, né gli Americani a distruggere università e palazzi, per ritirarsi nelle risaie coreane. Lo scopo – difficile ma proprio per questo eutopico – è semmai trovare dalle città quello che hanno di bello, buono, appassionante, lasciando fuori dalle mura quello che è orrido e negativo.

The Global City prova così a seguire quello che Calvino immagina nel finale de Le città invisibili: «riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». La “città globale” cerca un tempo e un luogo in cui gli orrori passati, presenti e futuri divengano un giorno ombre innocue, che ricordiamo quasi con quel piacere che sentiamo quando ci accorgiamo di esserci appena svegliati da un brutto incubo.