È proiettata nel futuro da una politica economica aggressiva, che rischia di schiacciare le fasce più deboli. Eppure, a dispetto della censura, a Pechino, come a Tijanjin e Shangai, il “popolo” si commuove ancora a sentire storie come quella dell’Ilva di Taranto.
di Nicola Pianzola
L’International Performing Arts Festival Nan Luo Gu Xiang prende il nome da una zona di Pechino che negli ultimi anni è diventata una delle più frequentate della capitale, grazie alla riquali cazione dei suoi storici hutong, dedali di vicoli in cui perdersi nello scorrere della quotidianità dei suoi abitanti e dove antiche porte di pietra decorate vanno a braccetto con accattivanti insegne al neon.
È qui che ha sede il Penghao Theatre, motore di un festival cresciuto rapidamente negli ultimi anni, fino a diventare il contesto privilegiato per un teatro contemporaneo internazionale. Questo minuscolo teatro da 100 posti, che assomiglia molto agli spazi off, da fringe, dei distretti teatrali di alcune metropoli asiatiche, durante il festival diventa il punto di riferimento del panorama teatrale cinese. Appena arrivati al Penghao, nel grazioso caffè antistante alla sala teatrale, nella stessa sera, incontriamo Pietro Valenti di Emilia Romagna Teatro Fondazione, Enzo Vetrano e Stefano Randisi di Diablogues, che hanno appena presentato il loro Totò e Vicè, e Thomas Ostermeier direttore artistico dello Schaubühne di Berlino. Inoltre, in qualità di maestri, invitati a dirigere uno dei workshop che costituiscono la ricca offerta formativa che affi anca la programmazione degli spettacoli del festival, abbiamo avuto modo di conoscere e vedere all’opera Yoshito Ohno, il celebre maestro giapponese di danza Butoh. Un universo teatrale racchiuso in un teatro “microcosmopolitano” che in Cina rappresenta una rarità, in quanto è nato dall’iniziativa privata di un professionista del settore dentistico, che ha deciso di investire i ricavi della propria clinica nella fondazione di un teatro “della gente”, traduzione alla lettera di Penghao. Durante la nostra permanenza al festival abbiamo avuto modo di fare una lunga e piacevole chiacchierata con il suo direttore artistico: Whang Xiang, il “dentista” che ha inventato un teatro.
Il dentista e il suo teatro
«Il mio lavoro di dentista è la fonte di supporto per il nostro teatro. Se non ci fosse la clinica dentistica non ci sarebbe il Penghao. Ricordo che durante un festival in Europa, quando ho raccontato di questa particolare situazione, un giornalista ha commentato: “Vorrei che ci fossero meno artisti e più dentisti!”. Nella vita puoi avere diversi ruoli. Puoi essere un tecnico specializzato e un artista, perché l’arte ha due livelli: uno “tecnico” e uno “spirituale”.
«Il Penghao è nato per resistere al sentimento di “paura” durante un evento storico: i giochi olimpici di Pechino. Oggi in Cina sembra che la gente abbia più potere di acquisto, ma per raggiungere quest’obiettivo il governo costringe il popolo più povero a condizioni durissime di lavoro portandolo a una perdita del proprio spirito. Ho fondato il Penghao, per resistere a questa caduta di valori umani e per permettere alle persone di coltivare il proprio spirito, in un paese “anti-umano” dal punto di vista dell’arte».
In Cina, il governo applica una censura molto restrittiva, che non permette all’arte di veicolare un messaggio politico o sociale. Per questo motivo il festival ha assunto da subito una vocazione internazionale, per mostrare al pubblico cinese come il teatro, in altri paesi, possa farsi portavoce di temi di attualità.
Whang Xiang ci racconta che in passato, il governo ha tagliato i fondi al suo teatro in seguito alla programmazione di uno spettacolo, in occasione della cerimonia di apertura di una precedente edizione del festival, che narrava di come la vita di una famiglia felice fosse stata devastata dal governo che un giorno ha distrutto la loro casa. Poi fa un riferimento al nostro spettacolo Made in Ilva palesandoci la motivazione della sua scelta di programmarlo nel festival.
«Nel vostro lavoro le emozioni passano attraverso l’azione sica, ma io sono stato toccato principalmente dalle parole, dal testo così denso di umanità. Come la gabbia nel vostro lavoro è quella della fabbrica, qui in Cina è quella molto più grande che abbraccia tutto il mondo del lavoro. Spettacoli come il vostro possono dare forza al pubblico cinese e agli altri artisti per lottare contro quelle persone che nel nostro Paese reprimono l’arte perché ne hanno paura».
In effetti siamo rimasti anche noi in stand-by no all’ultimo giorno, rischiando di non ottenere i visti necessari per entrare nel Paese, dato che per il contenuto del nostro spettacolo dipendevamo dal verdetto della censura cinese.
Nel nostro caso, pur trattandosi di un tema legato alla condizione dei lavoratori e dell’ambiente, siamo riusciti a superare lo sbarramento censorio, basandoci su un episodio italiano, quello dell’Ilva di Taranto, per parlare, però, in maniera universale di fabbrica, lavoro, alienazione, contaminazione. Così facendo siamo riusciti a portare il pubblico cinese a ri ettere sulla propria condizione lavorativa e sugli effetti negativi del proprio sistema economico e industriale. In Cina è molto raro assistere a spettacoli con questo tipo di contenuto e ancora più rara è l’occasione di fermarsi dopo la performance per un questions&answers con gli artisti. Siamo rimasti stupiti dalla curiosità del pubblico, in grandissima percen- tuale composto da giovani. Le domande sono state così tante da continuare la discussione nel foyer, quando la sala teatrale ha dovuto chiudere rispettando i rigidi orari. Studenti, professori, ricercatori universitari, altri artisti e performer vogliono restituirci le proprie impressioni, suggerirci testi e temi ai quali il nostro lavoro li ha fatti pensare e, in mancanza ormai del traduttore uf ciale, fanno uno sforzo per vincere la timidezza e azzardare con noi una comunicazione in lingua inglese. Quello di Pechino è senza dubbio un pubblico attento ai nuovi linguaggi del contemporaneo.
Niente passato e niente memoria
Lo abbiamo notato già nei giorni precedenti alle repliche, quando abbiamo diretto il workshop “La memoria del corpo e il canto dell’assenza”. Con le giovani allieve cinesi abbiamo condiviso una ri essione pratica sull’attualizzazione delle tradizioni performative nelle società contemporanee. Nel nostro immaginario la Cina è luogo colmo di tradizioni di ogni tipo, forse perché il folklore di questo Paese è stato trasmesso attraverso spettacoli, danze ma anche decorazioni, cibo, e molto altro, ma in Cina le tradizioni performative sono ancora vive? Tra le prime richieste rivolte ai partecipanti c’era quella di preparare alcuni materiali: un canto tradizionale e un testo avente come tema la memoria. Una richiesta che ha messo in crisi una generazione nata dopo una rivoluzione culturale che ha segnato una cesura netta con il passato e la tradizione. «La mia famiglia era benestante un tempo, viveva in una grande casa, ma con la rivoluzione culturale è stata privata di tali privilegi» ci racconta una delle partecipanti scavando nella memoria dei racconti dei suoi parenti, in un tempo antecedente la proclamazione della “Nuova Cina”.
Il workshop è stato uno stimolo per riscoprire frammenti di arti tradizionali oggi considerate inutili, non funzionali alla formazione dell’individuo e alla sua crescita professionale. Frammenti che hanno trovato una ricongiunzione nella performance conclusiva presentata al festival, dove ogni movimento, ogni suono e un unico oggetto, un foulard di seta rosso, hanno assunto signi cati molto forti. Il rosso, simbolo della Cina, è infatti anche il colore della sposa, in un Paese dove molte donne sono ancora soggette a matrimoni combinati, nonostante l’apparente uguaglianza imposta dal comunismo. Le nostre allieve studiano quasi tutte in Europa o negli Stati Uniti e rappresentano la generazione del cambiamento, della libertà di espressione, quella nuova élite culturale che ruota intorno a un festival sempre più in fermento e in crescita e che da Pechino, quest’anno, per la prima volta arriva a interessare anche la vicina Tianjin.
Tianjin e la catastrofe industriale
Così dalla capitale ci spostiamo verso questa città por- tuale, per l’esattezza al Tianjin Grand Theatre, un’immensa struttura in acciaio e vetro che si rispecchia nelle acque giallognole del lago arti ciale antistante. Perché Made in Ilva replica a Tianjin? La scelta del direttore del festival è davvero coraggiosa e ammirevole se si pensa a ciò che è accaduto in questa città il 12 agosto 2015. Tianjin, purtroppo, è sinonimo di una delle più grandi tragedie industriali della storia del Paese. Un’intera zona periferica è stata completamente rasa al suolo da una serie di esplosioni. A noi sono giunte solo poche immagini apocalittiche di le di auto tutte identiche e completamente carbonizzate e di palazzi collassati, cir- condati da dune di cenere. Per diversi mesi, l’aria è ri- masta contaminata da cianuro di sodio e nel nostro albergo, insieme alla mappa della città, ci viene data una mascherina antismog.
La popolazione di questa megalopoli, offuscata dalla vicina Pechino, è rimasta segnata da questo episodio e ci chiediamo come possa recepire un lavoro forte co- me Made in Ilva, incentrato proprio su questo tema. In Cina il pubblico è molto legato alla “storia”, al testo di uno spettacolo, per questo controlliamo personalmen- te ogni slide della traduzione in cinese del testo che proponiamo nella sua versione in lingua inglese. Vogliamo essere certi che arrivi allo spettatore ogni singola parola, ogni messaggio, ogni sfumatura poetica della drammaturgia tessuta fra le testimonianze dei lavorato- ri dell’acciaieria tarantina e la poesia di Luigi Di Ruscio. Siamo coscienti di rappresentare una novità, un esperi- mento, in un teatro caratterizzato da una programma- zione classica e operistica, in una città che, a differenza di Pechino, è povera di una scena teatrale variegata e contemporanea. La disposizione particolare del pubbli- co che chiediamo per il nostro spettacolo è sufficiente a mettere in crisi il personale di sala della, ironia della sorte, multifunctional hall, progettata per adattarsi a di- verse con gurazioni delle sedute. In Cina, nei teatri, e in genere in tutti i luoghi dove accede un gran numero di persone, manca totalmente il concetto di audience management. Così, gli spettatori sono liberi di entrare anche alla ne dello spettacolo, di muoversi liberamente e rumorosamente nella sala per cambiare posto, minacciati da un fastidioso raggio laser solo nel caso estraggano i loro amati smartphone per filmare la performance. Eppure, qui a Tianjin, il buio cala insieme a un silenzio sconcertante, poi le lacrime di alcuni spettatori, e in ne tutti in piedi durante gli applausi. Molti tra il pubblico hanno già visto lo spettacolo a Pechino, so- no tornati, e hanno portato con loro amici e conoscenti. Tutto questo ci fa capire come nelle città con meno offerta teatrale sia viva la necessità di un teatro capace di andare oltre alle logiche d’intrattenimento e di compiacimento di un governo fortemente invasivo a livello culturale. La scelta di estendere un festival internazionale e sperimentale come il Nan Luo Gu Xiang di Pechino alla vicina Tianjin si rivela ancora una volta in linea con la poetica e la missione “spirituale” del piccolo Penghao, un teatro della gente e per la gente.
Shanghai, workshop al museo
Se nella prima parte della nostra tournée siamo entrati a contatto con i grandi teatri statali e con rarissime esperienze di teatri indipendenti, a Shanghai sono i mu- sei di arte contemporanea, i distretti artistici e le grandi accademie teatrali ad accogliere il nostro lavoro e proiettarci in un panorama culturale in cui la contaminazio- ne fra il teatro e le arti visive è più evidente ed è possibile sviluppare progetti teatrali in spazi non convenzio- nali e in modalità site-specific. È il caso di The Power Station of Art, forse attualmente il più importante Mu- seo di arte contemporanea di tutto il Paese, una ex centrale elettrica che oggi nei suoi sette piani, ospita esposizioni, workshop, eventi. È qui che iniziamo e concludiamo il nostro progetto “The Organic Body” organizzato in collaborazione con Vertebra Theatre, una delle realtà cinesi emergenti più attive nell’ambito della produzione teatrale contemporanea.
Dopo aver tenuto una conferenza di apertura in una delle sale del Museo, visitiamo i suoi spazi, rimanendo affascinati dalla location presente al quinto piano, chiamata Spa: una lunga sala dove sono presenti tre vasche vuote, di diverse forme, completamente pia- strellate in bianco, e dove la città sembra abbracciarti dall’enorme vetrata della terrazza panoramica. È il luogo ideale per presentare la performance conclusi- va con i partecipanti al workshop intensivo di cinque giorni che abbiamo diretto alla Shanghai Theatre Academy: una vera e propria istituzione a livello nazionale, che conta tre differenti complessi dislocati nella città. Con i suoi due teatri, un campus dove gli studenti pos- sono risiedere e svariati edi ci per le lezioni, scopriamo, con grande sorpresa, di essere nel più piccolo dei tre! I nostri allievi provengono da diverse zone del Paese e da esperienze differenti. Alcuni sono insegnanti dell’Accademia, altri lavorano come attori professionisti teatrali e televisivi, altri ancora sono appassionati di teatro e studiano arti visive e altre discipline. Tutti sono accomunati dall’interesse per il tema principale del nostro lavoro: la ricerca dell’organicità di corpo e voce per il raggiungimento della “verità” scenica e il processo creativo del performer.
Molti di loro lavorano in televisione, uno è addirittu- ra una movie star che i giovani fermano per strada per scattarsi un selfie. La noiosa interpretazione del solito personaggio da serie tv, la frustrazione del piangere a comando su indicazione del regista e la mancanza di contenuti nelle produzioni di un’industria cinematografica e televisiva che, qui a Shanghai, la fa da padrone, hanno spinto questi ragazzi a cercare qualcosa di più vero e profondo.
Porsche e arte contemporanea
Diffondere a Shanghai un teatro d’attore dalla forte componente sica ed emotiva è la mission di Qianpeng Li, la direttrice artistica di Vertebra Theatre, la quale, conoscendo la nostra esperienza internazionale e i nostri precedenti progetti con attori asiatici, ha costruito con noi questo percorso intensivo prevedendo una restituzione al pubblico della Power Station of Art, che durante la performance nale è libero di muoversi e di condi- videre con gli attori il suggestivo spazio della Spa. È un pomeriggio afoso, le temperature toccano i 40 gradi, la forte luce che ltra dalla vetrata rende tutto surreale e avvolto da un bianco abbagliante. L’assenza di aria con- dizionata fonde lacrime e sudore sui corpi degli attori in un crescendo emotivo che coinvolge ogni singolo spet- tatore portandolo in questo viaggio verso la riscoperta del corpo, nella sua individualità e come unica essenza di un gruppo.
Ci emozioniamo anche noi perché capiamo di essere riusciti nel nostro intento, non solo quello di trasmettere una tecnica ma qualcosa di più, una passione, una disciplina, un modo nuovo e diverso di fare teatro.
Se Pechino rappresenta ancora la tradizione, con il suo omonimo teatro d’opera classico, Shanghai sembra la negazione di questa, la commercializzazione di una cultura sempre più globalizzata. Grazie ad Alberto Manai, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Shanghai che, nel seguire il nostro progetto, ci guida alla scoperta dei centri nevralgici dell’arte contemporanea di questa metropoli, in una sola settimana ci sentiamo catapultati nella sua vibrante vita culturale dalle tante sfaccettature e dai forti contrasti.
Nella stessa sera e nello stesso art district di Red Town, uscendo dall’inaugurazione di una mostra sugli artisti cinesi del terzo millennio al museo di arte contempora- nea Minsheng, incrociamo il ben più folto pubblico della serata di lancio promozionale della nuova Porsche. In una città da sempre votata a essere la numero uno del Paese in fatto di crescita economica, sono i prestigiosi musei di arte contemporanea a farsi promotori di un teatro sperimentale e internazionale e a ritagliarsi un pubblico di nicchia tra i 23 milioni di persone che affollano le vie commerciali di questo scenario futuristico. È proprio qui che torneremo presto, in questa città densa di suggestioni per il nostro progetto di ricerca “Megalopolis”, nell’ambito del quale svilupperemo una nuova produzione con il Vertebra Theatre, che debutterà a ottobre del 2017 per la regia di Anna Dora Dorno e con un cast di attori cinesi.
La Cina ci ha affascinato con la sua commistione di tradizione che resiste sotto la super cie di un livellamento culturale votato alla crescita economica e innovazione artistica che trova spazio negli enormi art districts sor- ti sulle rovine di un’archeologia industriale urbana. Salutiamo il gigante asiatico, pronti a continuare la nostra tournée. Ancora una volta non si tratta di un addio, ma di un arrivederci.