Articolo di Simona Maria Frigerio per Persinsala

Nello spazio claustrale dove ieri sera è stato presentato il libro che raccoglie i 12 anni di esperienze artistiche e umane che Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola hanno vissuto – dall’India alla Polonia, dalla Corea del Sud al Messico – oggi si tiene un incontro emotivamente e poeticamente perturbante, ossia quello reale tra performer di diversa provenienza e matrice culturale, riuniti per tessere una nuova pezza multicolore da cucire a Stracci della Memoria – che, da pagina scritta, si ritrasforma nel farsi teatro.

Questa volta non siamo stati chiamati a dare un contributo critico a un lavoro in fieri (utile all’artista che sente la necessità di dialogare con l’alterità evitando di rinchiudersi nella torre d’avorio della propria maestria, vera o presunta, finanziata però con fondi pubblici); tanto meno un parere su un lavoro finito (utile soprattutto allo spettatore, che può essere incuriosito da un nome meno altisonante o sollecitato da nuovi strumenti di lettura, o al contrario reso maggiormente conscio di come andrà a spendere i propri soldi). In questo caso siamo stati invitati ad assistere a una tappa di un processo di ricerca, all’attuazione di quelle teorie e racconti che si rintracciano nel primo libro di Instabili Vaganti, Stracci della Memoria. Ma soprattutto, in maniera forse voyeuristica, ad assistere a un rito laico che si chiama teatro, dove l’officiante – spogliato dei propri simboli – si carica della povertà del proprio corpo con tutti i suoi limiti – umani, carnali, oggettivi eppure soggettivi.

Di fronte a noi un attore/officiante che rimanda alle teorie di Jerzy Grotowski, in un tempo in cui il teatro (ma anche le arti figurative) si faceva povero, scegliendo un’essenzialità che non era astrazione, bensì uno spogliarsi di oggetti e orpelli – sovrastrutture borghesi – per scavare nel corpo dell’attore, sotto la sua pelle, scorticandolo fino a farne emergere l’autentica forza, quella tribale, atavica, del rito intorno al fuoco, di un’umanità che si faceva forza, tenendosi stretta e compartecipando. Andando aldilà di Stanislavskij e della sua reviviscenza di matrice psicologica, per scendere in quell’inconscio collettivo junghiano che ritroviamo nei sogni, nei movimenti riflessi, nelle comuni paure che ci assalgono, ad esempio, di fronte al fuoco – ben prima dell’affermazione delle leggi e dei tabù.

Il lavoro pratico rimanda da vicino anche – mentre lo vediamo srotolarsi nel suo farsi – alle improvvisazioni pre-tragiche, quando il coro iniziava a dialogare con il corifeo, ma quest’ultimo non era ancora diventato un personaggio a sé stante. La sollecitazione del singolo si specchia nella, o si scontra con la, risposta del gruppo. Ma l’individualità sembra intesa come stimolo a una compartecipazione – un’accettazione o un rifiuto da parte dell’altro da sé – e non come desiderio di protagonismo. Le sollecitazioni possono essere canore, nascendo da canti rievocati nella memoria dei partecipanti/attuanti, oppure fisiche, o ancora essere provocate da un sentimento. Si sta indagando l’assenza – come vuoto, morte, non-io; ma anche rinascita, ciclicità naturale, accettazione della caducità e limitatezza umana. Ed è Anna Dora, nella sua veste di regista – nel senso, anche sciamanico, di guida e non di responsabile tecnico/artistico di un prodotto unitario e unilaterale – che invita, con gentilezza ma anche con una precisa visione dell’insieme, al primo passo, la prima azione significativa, l’intonazione del primo canto.

Un’altra direttiva di ricerca che si rintraccia è indubbiamente quella della decostruzione del performer. Tutti e cinque i partecipanti alla Sessione hanno un proprio bagaglio artistico, oltre che culturale, e si capisce che il tentativo di Anna Dora e Nicola è sì di evidenziarlo – a livello di potenzialità – ma anche e soprattutto di destrutturarlo. La voce, lirica e sinuosamente significante dell’una, o la forza attorale dell’altro, devono tornare a essere parti/strumenti del corpo, riportati a un livello basico, pre-interpretativo, spogliati di qualsiasi virtuosismo. Se è difficile apprendere una tecnica, quanto chiedono Instabili Vaganti non è da meno: dimenticare anni di studio, di pratica attorale, per ritrovare il movimento propriamente umano. Fare silenzio dentro di sé per generare il caos, perché – come diceva Nietzsche (il visionario autore de La nascita della tragedia): “Bisogna avere un caos dentro di sé per generare una stella danzante” (Così parlò Zarathustra).