Recensione di Simona Maria Frigerio su Persinsala

20 settembre 2018

Il Teatro Necessario

La Stagione dei Teatri ravennate si apre con Made in Ilva di Instabili Vaganti, il giorno dopo i risultati dello storico accordo tra sindacati e Mittel – tra qualche spiraglio e molte chiusure. Coincidenza o necessità?

Sono circa le 20.30 quando arriviamo nella zona delle Bassette. Made in Ilva non andrà in scena al Teatro Rasi, bensì nella sede di una società che si occupa normalmente di sicurezza – anche in teatro. Ci troviamo nella periferia industriale di Ravenna: un ampio cortile in cemento e un capannone di forma rettangolare ci accolgono con sobrietà. Verrebbe da chiedersi quanti cittadini avranno voglia di spingersi fino in periferia per uno spettacolo che promette di affrontare temi ben poco cool, quali il lavoro in fabbrica, la salute di una città meridionale, la sicurezza degli operai – quelle tute blu che giornalisti e politici si ostinano a dire estinte come i dinosauri. Marcella Nonni ci spiega la scelta comune delle Albe e di Instabili Vaganti di mettere in scena qui questo spettacolo: «Siamo partiti dall’esperienza di Nicola e Anna Dora per capire dove era stato rappresentato in questi anni e, successivamente, abbiamo iniziato a ragionare con un imprenditore locale che si occupa di sicurezza, lavora anche con noi, ed è una persona curiosa che frequenta il teatro da spettatore: una chiusura del cerchio pressoché perfetta. Ma non solo, perché questo imprenditore, che è il nostro ospite di stasera, aveva anche il desiderio di invitare le persone che lavorano con lui a condividere una situazione teatrale. Da queste diverse esigenze, che si sono incontrate felicemente, è nata la possibilità di allestire in questo luogo Made in Ilva». «Del resto, una tra le nostre finalità», ricorda Argnani: «è quella di portare il teatro alle persone. La non-scuola ne è l’esempio più lampante e coinvolge alunni, insegnanti, istituti in tutta Italia da 25 anni a questa parte. Noi vogliamo fare del teatro un luogo da vivere quotidianamente, cercando anche nei momenti in cui non c’è spettacolo di ospitare comunque la comunità. D’altra parte, la nostra responsabilità è anche quella di guardare a Ravenna come a un insieme di luoghi dove debuttare. È un incontro importante, quello che si realizza oggi, sia per i lavoratori che vivono questo spazio tutti i giorni, sia per un’opera che si confronta con un luogo e spettatori molto diversi».

Ed eccoci qui: un emiciclo di sedie posizionate di fronte alla porta del capannone. Nemmeno una resterà vuota – con spettatori dai 6 agli 80 anni. Ci chiediamo come trasformeranno Instabili Vaganti, in teatro, la realtà dell’Ilva. Anzi, la duplice realtà dello stabilimento tarantino. Da una parte l’accordo con Mittel confermato con il referendum dei lavoratori proprio oggi, che garantisce continuità all’impresa (e, quindi, il salario e la sussistenza di migliaia di famiglie oltre alla garanzia del mantenimento dell’Articolo 18, soprattutto come segno del rispetto che si deve ai lavoratori) ma ne sancisce anche l’immunità penale – ossia l’impunità – in caso trasgredisca a norme di tutela dell’ambiente, della salute e dell’incolumità pubblica (e, quindi, dove andrà a finire il rispetto di cui sopra?); e dall’altro, la società civile, che giudica alquanto fumosi gli impegni di Mittel per la salvaguardia dell’ambiente e la salute dei cittadini di Taranto – che da anni, in maggioranza (visti anche i risultati delle recenti elezioni politiche), si battevano per la chiusura dello stabilimento. Come tradurranno, Instabili Vaganti, la cruda realtà dei fatti e l’aspirazione umanissima a un futuro diverso per una terra e le persone che la abitano? Come renderanno – a livello scenico – l’alienazione del lavoro in fabbrica e il sogno forse infantile di un cielo blu? Là dove la politica non sembra più in grado di disegnare nuovi orizzonti, di immaginarsi stili di vita altri, di realizzare utopie condivise, cosa può fare il teatro?

Il rispecchiamento non è mimesi. Il teatro lo insegna. Si parte da un linguaggio che è quello della nostra quotidianità fatta di parole ma soprattutto di azioni, atteggiamenti, espressioni, e lo si trasforma in altro: una crisalide dell’insetto originale – fragile e altrettanto perfetta ma dove non scorre più il sangue. Solo l’attore, in scena, può ripompare sangue nelle vene del teatro e ridare vita alla crisalide per il tempo – sfuggente come il battito d’ali d’una farfalla – di una performance. Come sempre nei lavori di Instabili Vaganti (che ormai seguiamo da alcuni anni), la prima caratteristica che riconosciamo è la loro capacità di fondere poesia e prosa in un pastiche ricco di rimandi – in questo caso, la frase colta nella quotidianità di un operaio delle acciaierie Ilva di Taranto (o di un’altra, qualunque, tuta blu che rappresenta quella classe operaia che continua ad aspirare al paradiso), e alcuni brani di un poeta/operaio, Luigi di Ruscio. Il risultato, già nella prima scena, inquadra il presente ma porta lontano. Di fronte a noi l’operaio con l’eskimo, ma anche un simbolo infantile come Cappuccetto Rosso, la violenza della produzione e il sogno proprio del bambino di cosa farà da grande. La ricchezza dell’accostamento iconografico favorisce i rimandi personali – volontariamente o meno: da Le Nuvole di De André a un vecchio video di Kate Bush, dove un padre e suo figlio tentavano di “rompere le nuvole”. In questo modo bastano pochi minuti per sentirsi parte di una storia che, in fondo, appartiene a tutti.

Nicola Pianzola sembra, nel frattempo, sdoppiarsi. Da una parte diventa egli stesso macchina, incarnando in un corpo umano i processi della produzione, restituendo il freddo dell’acciaio (grazie anche a un ottimo uso delle luci) o il movimento imperturbabile e continuo del nastro trasportatore o, ancora, rinchiudendosi in una specie di gabbia/scala e restituendo fisicamente la sensazione dello spazio costrittivo di un’acciaieria – dove ogni movimento deve essere calcolato ma è anche sorvegliato con precisione. E, d’altro canto, come un Everyman (personaggio che ritorna nei lavori di Instabili Vaganti) dà corpo e voce all’oppressione del caporeparto, alle false rassicurazioni della dirigenza ma soprattutto alla paura dell’operaio – costretto a “produrre per vivere e a sopravvivere per continuare ad aumentare la produzione”. La voce di Pianzola, dal vivo, si sovrappone ai canti di Anna Dora Dorno, e l’accelerazione e le volute forzature conducono a una serie di climax che immergono sempre più lo spettatore in quell’universo nevrotico e fagocitante che può essere la fabbrica – e che Volonté, nel ruolo di Lulù Massa, riassumeva in una frase che resta tutt’oggi emblematica: «Io sono come una puleggia, come un bullone… io sono una pompa! E non c’ho più la forza di aggiustarla, la pompa, adesso!».
Ma l’Everyman di Pianzola si rialza: gli basta un raggio di sole che riesce a farsi strada nel capannone (una tra le scene più emozionanti, con quella iniziale dell’incubo dell’operaio – visivamente quasi agnello sacrificale sul banchetto del Capitale di marxiana memoria) per librarsi come un angelo e volare via, finalmente libero. Ma, ovviamente, è solo un sogno. La realtà resta la fabbrica, quelle architetture alla Piranesi che, proiettate all’interno del capannone della Nuova OLP, ne aumentano la profondità restituendo il senso di sgomento che l’uomo, nella sua carnalità fragile, prova di fronte alla macchina – non tanto come strumento di ferro e bulloni quanto come ingranaggio produttivo che stritola diritti e aspirazioni, che ricatta sui bisogni in nome di quelle magnifiche sorti e progressive che già Leopardi denunciava, derideva, di certo paventava.
Dopo un autentico tour-de-force che Pianzola regge fino all’ultima battuta, l’Everyman torna bambino, alle nuvole, al tempo delle favole e dei sogni, al desiderio di plasmare un mondo a misura d’uomo. Made in Ilva sembra lasciarci con una nota forse di speranza e quando il sipario – che non c’è – si chiude, il pubblico resta a lungo seduto. Anche dopo gli applausi fatica ad allontanarsi da un luogo dove ha vissuto un’esperienza, indugia in attesa di una spiegazione, di quella risposta, profondamente umana, a bisogni altrettanto umani.

La catarsi come purificazione, riconciliazione ma soprattutto presa di coscienza e superamento – di problematiche individuali e collettive. Ancor prima del logos, del dio/padre, del dio/parola, uomini e donne vi giungevano attraverso i rituali, il canto, la danza – dionisiaci, tribali. Il bisogno di ricreare un cerchio attorno al fuoco per sentirsi meno soli di fronte all’incomprensibile (come nell’esperienziale Morte di Zarathustra di Teatro Akropolis). Aldilà dei codici e degli strumenti per decriptarli, il teatro resta un linguaggio radicalmente umano nel suo farsi, nel suo compartecipare la nostra comune condizione. Un teatro semplicemente necessario in questo nostro rivendicare, come Vittorio Arrigoni: stay human.