Recensione di Luciano Uggè per Artalks

1 giugno 2018

Il Rito. Instabili Vaganti e una performance lunga 12 anni

Al LAB Oratorio San Filippo Neri va in scena la performance che la Compagnia bolognese ha costruito in due lustri di viaggi, incontri, confronti e dialogo con altre discipline e culture.

L’oscurità avvolge l’inizio dello spettacolo, Il Rito, e un palcoscenico deserto. Dalla penombra, quasi figura senza tempo, che fuoriesca dalla nicchia in cui riposava da secoli, un corpo accompagnato dalla dondolante luce di una lanterna avanza. A scandirne i passi una litania vagamente goticheggiante, che ne accentua la collocazione atemporale. L’uomo prende posto sulla nuda terra che abbiamo di fronte. Il forte profumo della stessa e l’odore delle candele accese, una dopo l’altra, si mescolano: terra e fuoco diventano elementi basici, compartecipi di questo Medioevo futuro – quasi fantastico.
Una voce, allo stesso tempo melodiosa e conturbante, si sovrappone e si inserisce in modo sempre più incisivo mentre l’incedere della seconda figura che articola la melodia, stranamente distante eppure familiare, si perde in un vortice sempre più sincopato.
Suggestioni, bagliori.
Il video, dal fondo della sala dell’ex chiesa sconsacrata, aggiunge pathos e accentua la sensazione di smarrimento: ci si abbandona alle immagini, alle suggestioni, avvolti e un po’ persi tra i suoni strumentali e vocali in un girotondo che parrebbe non avere fine.
Intanto il riso, quasi fosse germogliato e fosse stato raccolto in quel momento, accoglie la figura femminile, la sposa, che si sdraia e giace – forse sognando ciò che lo schermo propone sino a un brusco risveglio pieno d’angoscia.
Mutano i colori che si accendono, i percorsi di queste figure al confine tra onirico e realtà si intersecano ma le loro voci non si congiungono, non ora. Il rosso sanguigno invade la scena, così come la condanna: si aprono le porte degli inferi. L’uomo, come l’angelo caduto, dispera di uscirne, di risalire alla superficie e quando tutti gli sforzi risultano inutili, non ci si rassegna alla condanna: meglio padroni all’inferno, che servi in paradiso.
I movimenti dell’uomo disperato e disperante da tesi e contorti si fanno sempre più armoniosi, rimandano a quelli di una capoeira che si sta materializzando in quel momento davanti ai nostri occhi, resi ancora più drammaticamente realistici dal taglio luci e dalla musica che li accompagna. Ma non vi è scampo, il rito si deve compiere: la fine è inevitabile.
La fine, in sé drammatica e lirica, rimanda iconograficamente alla Pietà e a tutte le sculture che l’hanno rappresentata. Il rosso che aveva pervaso la scena cede il posto alla dicotomia di bianco e nero. La ciotola contiene solo pietre, l’acqua si è prosciugata da questa terra desolata. Le gocce si sentono ma non si materializzano: il bisogno è quello di sprofondare nella terra – da cui tutti nasciamo e alla quale torneremo. I ritmi tribali si trasformano in una danza che assurge a una dimensione sciamanica, quasi spirituale.
Ma nulla dura, nulla può dirsi eterno in questa ruota di eterni ritorni. È una voce sospesa nel vuoto a richiamarci all’addio. E l’ultimo video, con quelle immagini che trasmettono un profondo senso di freddo e solitudine, si mescola con la figura del viandante, che ci aveva accolto all’inizio di questo lungo cammino verso la fine – la sua, la nostra.
Il Rito è un’opera complessa, curata nei minimi particolari, con un disegno luci e un dialogo tra voci e musiche che precisano ed esaltano ogni fase della performance. I corpi si amalgamano, riempiendo con una gestualità densa di significato tutti gli spazi utili di questo luogo insieme sacro e profano, laico e religioso.
I ritmi e l’equilibrio tra climax e anticlimax aiutano lo spettatore a immedesimarsi, non a livello intellettuale ma empatico, con una compartecipazione emotiva che spingerebbe alcuni anche a partecipare attivamente al rito stesso – un desiderio, questo, che difficilmente si prova assistendo, di questi tempi, a spettacoli teatrali.
Il Rito, un lavoro frutto di dodici anni di ricerche e scambi, ha una forza e bellezza che solamente un teatro sempre più miope e fossilizzato può impedire che giunga a un pubblico più ampio, un pubblico che forse aspira al cambiamento tanto quanto il comune cittadino.